L’India non si visita. Si attraversa, si sopporta, si accetta. È un luogo che non ti accoglie né ti respinge, semplicemente ti mette alla prova. Ogni strada, ogni sguardo, ogni suono è una domanda. E tu, viaggiatore, sei costretto a rispondere.
Sono arrivato nel sud, tra le colline del Karnataka, dove la terra rossa si confonde con la giungla e i villaggi si svegliano al canto dei corvi. A Bylakuppe, la più grande comunità tibetana dell’India, il tempo sembra essersi fermato in un equilibrio precario tra nostalgia e speranza.

I monaci camminano in fila, vestiti di porpora e ocra, e il suono dei tamburi si mescola al vento che muove le bandiere di preghiera. Ogni battito, ogni preghiera, è una memoria del Tibet perduto.
Nel grande Monastero di Sera Jey l’oro delle statue scintilla sotto una luce impietosa. Eppure, dietro a quella ricchezza, si sente la povertà di chi ha perso la propria terra ma non la propria fede. Ho parlato con un giovane monaco: studiava la filosofia della mente, ma mi ha chiesto della pioggia in Europa, come se gli interessasse sapere se anche altrove il mondo era in equilibrio.

Da lì sono andato verso Mysore, città elegante e polverosa, dove il palazzo del maharaja brilla come un sogno coloniale. Le strade sono piene di mucche, autobus, uomini scalzi e studenti in uniforme. L’India non ha centro, né confini: è un organismo vivente che si muove secondo una logica che nessuno può spiegare.
Nei pressi del Mysuru Palace, ho incontrato i sadhu, gli asceti vestiti d’arancio. Alcuni avevano occhi che sembravano guardare oltre la realtà, altri cercavano solo qualche moneta. Uno di loro mi ha detto:
“La libertà non è rinunciare a tutto. È capire che nulla ci appartiene.”

Non era una frase da saggio, era una constatazione semplice, quasi stanca. In India, la spiritualità non è un concetto, ma una condizione naturale. È nei gesti, negli odori, nei rumori che ti travolgono e ti insegnano la resa.

La notte, nei villaggi, il silenzio è quasi fisico. Le stelle sembrano più vicine, e i canti che arrivano dai templi si mescolano ai versi degli animali nella foresta. Lì ho capito che non esiste un confine netto tra sacro e profano, tra divino e umano. In India, tutto convive: il dolore, la fede, la povertà, la bellezza.
Questo viaggio non mi ha offerto risposte, ma domande più grandi. Forse è questo il vero senso del viaggiare: non cercare qualcosa da trovare, ma qualcosa da capire. E capire, spesso, significa accettare di non sapere.

Nota dal confine della giungla
Negli ultimi giorni, mi sono spinto ai confini della giungla indiana, dove la terra diventa umida e il respiro del mondo si fa più lento. Durante la pandemia, in quelle zone, molti hanno perso la vita. Oggi l’aria è tornata quieta, ma si percepisce ancora la traccia di ciò che è passato: un silenzio che pesa come memoria.
Mi sono fermato lì, con il registratore acceso, ad ascoltare. Là, dove la foresta si apre in radure e il vento passa tra gli alberi come un pensiero antico, ho compreso che anche il dolore ha una frequenza. E che, se lo si ascolta davvero, rivela un ritmo nascosto, una vibrazione che appartiene alla stessa Terra.
Di quell’esperienza ho parlato nel podcast “L’invisibile vibrazione della Terra” ,dove i suoni raccolti in quel luogo raccontano ciò che le parole non possono dire.
Marco Ghianda
Testo di esempio